2001 odissea negli spazi
La webzine di Betty&Books è lieta di ospitare il terzo appuntamento con The L(ove) word. Autonarrazioni a confronto (1993-2013), in G. Giuliani, C. Martucci, M. Galetto. Saggio tratto da L’amore ai tempi dello tsunami.
Se vi siet@ pers@ le puntate precedenti andate all’intro. Il titolo di questo capitolo dedicato ai primi anni 2000 richiama (non sappiamo se volutamente) il titolo di un manifesto (e una parade) bolognese che ha coinvolto gli spazi sociali (e di socialità) attivi negli anni ’90: LIVELLO 57, TPO 45/C, LINK, CASSERO, addirittura il COVO e altri che al momento non ricordiamo ;) Una costellazione di progettualità – spazi occupati e non – che ha gettato le basi per una rivendicazione collettiva capace di coordinare istanze specifiche in una cornice comune. Ma ora basta con il vintage di “movimento” vi lasciamo alla lettura di The L(ove) word. Ah, l’imagine di copertina è tratta da deviant artGG: È tra il 2000 e il 2001 che venne a verificarsi ciò che rappresentò per me non tanto un punto di svolta quanto l’evoluzione coerente di quel processo di “ricerca” e di quella conflittualità con una serie di ordini simbolici che mi avevano caratterizzato sino a quel momento. Genova 2001 rappresenta una tappa imprescindibile di tale evoluzione: partita senza appartenere ad alcuna formazione precisa, ma con il bagaglio di un anno e mezzo di riflessioni e lotte collettive sui temi della globalizzazione soprattutto a Bologna[1], arrivai a Genova perplessa, convinta che la battaglia dei “corpi” dei subalterni contro la violenza neoliberista prima di essere globale dovesse essere locale. La nostra esposizione al controllo poliziesco e alle cabine di regia della violenza di Stato a Genova si profilava come un “trauma” prevedibile, almeno nei miei pensieri. Senza togliere nulla alla bellezza di quelle giornate, nei termini dei molteplici scambi intellettuali, politici e emotivi, e dell’euforia per una visibilità mondiale, il grandioso lavoro simbolico che c’era stato prima e che ci fu durante la settimana di preparazione alle tre giornate e durante la manifestazione dei migranti il primo giorno venne frantumato da ciò che riconobbi dopo essere stata, da un lato, l’incomunicabilità di alcune pratiche interne al movimento globale, dall’altro, l’iperorganizzazione militarista e repressiva degli apparati di Stato.
Tornai da Genova con tanta paura e amarezza, ma anche con un rinnovato entusiasmo per qualche cosa che si concretizzò pochi mesi dopo, ossia, per forme di lotta che avessero la capacità di riflettere sulle molteplici vite dei “corpi”, sulle loro ambivalenze, sulle forme di resistenza e agency più sommesse e meno plateali, sulla dimensione simbolica delle lotte, sulle congiunzioni tra classe, sessualità, genere e cultura e sulle forme di attivismo che ponevano al centro tali intersezioni. Mi innamorai di un certo pensiero femminista che non dava niente per scontato e che tentava di incontrare le tradizioni intellettuali e le pratiche politiche di pezzi della storia italiana e globale dell’attivismo queer, transgender, dei subalterni di colore, delle e dei sex workers, mescolandole ad una buona dose di (auto)ironia. Saldando tutto ciò a discorsi che ponevano in primo piano la “precarietà di vita”, nacque Sexyshock – una rete di donne e non solo, nate o diventate, per lo più cittadine, che ripartiva dalla sessualità e dal concetto di “desiderio” per affrontare le spinose questioni delle pratiche politiche nei movimenti, così come della quotidianità della nostra generazione di donne. Sexyshock portò avanti una serie di campagne politiche a partire da auto-inchieste e dall’elaborazione di una serie di linguaggi (soprattutto radiofonici, visuali e performativi) che ci posizionavano come singole e come rete di donne all’interno del contesto storico, sociale e culturale degli anni Duemila[2].
Questo fu il luogo in cui cominciai a riflettere criticamente e a praticare forme di ribellione e resistenza a quello che Rosi Braidotti chiama fallogocentrismo e, più in generale, a quell’insieme di discorsi e strutture materiali che vanno sotto il nome di eterosessismo, dando vita ad una serie di percorsi autonomi e “incoerenti” dalla forte carica a-morale e rielaborati sempre e costantemente nell’ambito collettivo di Sexyshock. Abbandonata in modo netto e consapevole, nei primi anni del Duemila, quella che era stata per me una narrazione di coppia eterosessuale, monogama e profondamente ancorata ad una visione lineare e “moderna” di coppia-matrimonio-figli&famiglia, mi gettai entusiasticamente in ciò che oggi definirei una “sperimentazione queer” che non investiva solo la mia sessualità, ma anche il modo in cui io identificavo e performavo la mia identità di genere. Si trattava di un dis-ancoramento da tutta una serie di cornici intellettuali che sentivo “autoritari” al fine di portare avanti una “ricerca” che potesse fondare la mia posizione politica su un’insieme di questioni aperte che non potevano essere chiuse frettolosamente da linee di pensiero sistemico. Aderivo e praticavo l’idea del “corpo costruito” sia nel senso di Colette Guillaumin (1977; 1992), sia nel senso di Donna Haraway (1991) – un’oscillazione che potrebbe apparire bizzarra, ma tant’è. Da questa posizione teorica derivavo l’idea che genere, sessualità, identità appartengono a regimi sia simbolici sia materiali in cui la classe, la razza e il capitale culturale giocano un ruolo fondamentale. Dal canto mio, avevo l’impressione di essermi trasformata in donna faber – costruttrice, prima che del mondo, di me stessa – una specie di visione onanisticamente presuntuosa che si scontrava continuamente con i suddetti regimi, in cui o contro cui le mie molteplici identità si formavano. Essi, per quanto decostruiti, restavano lì imperiosi a dettar legge. Prima di tutto, ero precaria. Condizione che, seppur sin dall’inizio avevo visto come “possibilità” creatrice di forme di vita inedite e riflessioni intellettuali, pratiche politiche e posizionamenti estremamente produttivi, ora mi stritolava. Essa mi imponeva una serie di scelte biografiche anche pesanti, dettate dalla scarsità e non continuità di reddito e dalla conseguente necessità di migrare all’interno di un mercato del lavoro non garantito e povero.
Eppure la sessualità giocava un ruolo talmente entusiasmante da coprire d’oblio gli effetti economici della mia precarietà: l’incontro con persone queer, transessuali e con sexworker (come Porpora Marcasciano, Marcella di Folco, Valerie Taccarelli, Nadia e Aracne del MIT di Bologna, Cristian Lo Iacono e i/le compagn* di AntagonismoGay di Bologna e del Circolo Maurice di Torino, Pia Covre e Carla Corso del Comitato per i diritti civili delle prostitute di Pordenone, Liana Borghi e Clotilde Barbarulli delle Fiorelle di Pisa) aveva impresso una svolta importantissima nelle mie forme di identificazione, sicuramente in continuità col passato ma ora caratterizzate da una potenza simbolica e consapevole del tutto inedita. Imparai il concetto di femminilità come costruzione ri-appropriabile (e non solo esecrabile come “gabbia culturale strumento della subordinazione della donna”) da MtF e transgender che la recuperavano facendola propria nel senso più ironico di quella mimicry di cui ci parla Homi Bhabha, e di quella rivoluzione semantica teorizzata da Judith Butler. Mi riappropriavo anche io, così, di quella femminilità ri-codificata di cui mi ero dovuta sbarazzare da ragazzina per non incorrere a normalizzazioni e sottrarmi da quei sistemi del giudizio che, attraverso essa, mi riducevano sempre e solo alla categoria “donna”. Se l’icona femminile della mia infanzia è stata Lady Oscar, come per molte delle mie coetanee (e coetanei), capirete cosa intendo: nel senso più deBeauvoiriano possibile, nomina sunt res e quindi finché non hai un nome (o regime simbolico) che ti definisca – Oscar, Gaia, donna – la tua donnità non sussiste, datum non est.
“Naturalmente donna” era chiarissimamente una bugia a cui non credevo. Mi consideravo, e di conseguenza agivo, partendo dall’idea che “stavo rompendo” gabbie: la gabbia dell’autoritarismo e del patriarcato universitario, il mio luogo di lavoro e ricerca, che si riproduceva anche tra le persone che meno avrei immaginato avvezze; quella della categoria “donna”, problematizzandola sino a decomporla senza per questo transitare verso un genere maschile e sino a ragionare sulla miscela delle culture di genere che informa il mio pensiero/azione; quella del binarismo “eterosessuale/omosessuale” che non mi rappresentava affatto; quella di militante/attivista, che nella mia biografia andava a caratterizzarsi finalmente come agency critica e conflittuale, nel senso più ampio del termine, scevra da appartenenze definitive; quella della morale cattolica e borghese, che mi aveva imposto la cultura italiana, la militanza radicale e un certo femminismo abolizionista e moralista che avevo respirato fino ad allora.
Il contatto con il mondo gay e queer, con la sua scena artistica e militante (penso ad esempio ad Antagonismogay di Bologna, Pornflakes di Milano e Phag off di Roma) mi faceva da un lato comprendere quanto il mio anticlericalismo, femminismo, antiautoritarismo e anti-matrimonialismo fossero imprescindibili nella mia biografia emotiva, culturale e politica, dall’altro mi obbligavano sempre a tenere aperti i sistemi di giudizio, a non giudicare mai “in senso morale” ma sempre in senso politico. A farmi sempre e comunque una serie di domande, prima di mettere il punto a una questione, che essa fosse relativa alle pratiche sessuali Sado Maso, al diritto a prostituirsi, o alla Riproduzione medicalmente assistita o al legittimo desiderio di accedere al matrimonio da parte di partner dello stesso sesso. Queste domande, che avevo appreso dal femminismo nero e transnazionale, da quello postcoloniale e queer e dalla militanza delle lavoratrici del sesso in Europa, negli Stati Uniti e nel Sud del mondo, ponevano sempre al centro gli attori delle vicende, i loro desideri, le loro pratiche, le forme di soggettivazione che venivano esperite nella sessualità, nelle forme di identificazione, nelle battaglie per i diritti e no-border, nel contesto lavorativo.
Eppure, è in questo periodo che sperimento una strana ambivalenza tra l’apertura assoluta a quella che un tempo si sarebbe detta “sessualità libera e consapevole” e quella voglia di protezione che, a partire dagli eventi legati alla crescente precarietà e alla mancanza di reddito sin dalla fine del primo decennio del Duemila, si sarebbe ripresentata sotto forma di “nostalgia per la forma coppia moderna e (talvolta) eterosessuale” per quanto difficilmente eteronormativa.
Se la relazione d’amore veniva esperita in vari modi, infatti, l’assenza di forme di rassicurazione e protezione che potessero sostituire criticamente quelle polverizzate dall’esplosione a freddo del modello “coppia moderna” cominciava ad essere un problema. Con lo scemare dell’attività politica di Sexyshock e con il mio peregrinare oltreconfine (prima in Gran Bretagna, poi in Australia per tre anni) la mia partecipazione alla vita collettiva e le occasioni di scambio e sostegno reciproco sia in senso economico, sia in senso emotivo tipiche dei contesti femministi e dell’attivismo radicale vennero ad assottigliarsi, diventando probabilmente la ragione del mio “inconsapevole” rivolgermi a quel modello di coppia e vita relazionale. Ho visto agire su di me, in contrasto con le mie strategie emancipative, la forza di quella retorica della coppia eterosessuale che agisce sia in sede legislativa, sia in sede più generalmente istituzionale e famigliare, sia nei prodotti culturali nazional-popolari. Lo stesso valeva per la retorica sulla normalizzazione della coppia omosessuale che in Italia come altrove è operata dall’egemonia gay bianca delle grandi associazioni omosessuali italiane. Tutti questi discorsi portano con sé una stretta bio-politica sugli immaginari della precarietà, una stretta che impone un modello relazionale e genitoriale e un ordine discorsivo della coppia assolutamente normativizzati e controllati ma crescentemente improbabili da realizzare pienamente. Se, infatti, le stime sulla durevolezza delle relazioni di coppia istituzionalizzate fanno apparire come assai improbabile una durata oltre i cinque anni, ad esse poi si associano le stime sull’infertilità crescente e i dati sugli orrori delle violenze di genere interne a tali formazioni sociali, ribadendo la funzione squisitamente di controllo che viene associata al “sogno matrimoniale”.
Eppure io ne ero e ne sono attratta, nonostante l’indubbio carattere effimero delle forme di rassicurazione che promette… Ma questa è storia della fase successiva.
CM: Nel 2001 ho ventotto anni, sono da poco laureata e faccio parte di un collettivo politico femminista. Cosa volere di più?
Il percorso di riflessione e pratica politica con il collettivo Sconvegno è cominciato, per me e altre cinque coetanee, alla fine del 2000 su sollecitazione di un’amica comune, Lea Melandri[3], che ciascuna di noi ha avuto modo di incontrare individualmente in diversi contesti femministi:
È stata Lea a pensare ad un incontro nazionale fra femministe di tutte le generazioni ed ancora lei a metterci in contatto, ma poi noi abbiamo fatto nostra e trasformato la sua idea cercando di immaginare un momento non rituale in cui metterci in gioco veramente, dire anche cose sconvenienti e stimolare prospettive dissacranti. […] Confrontando e analizzando le nostre esperienze […], ci siamo rese conto sulla nostra pelle che la normatività su come si deve “essere donne”, oggi – diversamente da come poteva essere ancora negli anni settanta – è implicita e non palese: l’assenza di libertà emerge solo quando si “sgarra”, gli step sono slittati un po’ più in là nel tempo, ma pesano con tutto il peso degli antichi stereotipi, con l’aggiunta dei nuovi obblighi di donne “multiruolo”. […] In questo sistema di vita, il lavoro – in particolare – ci appare come un nodo centrale per un’analisi critica della nostra società e per individuare possibili margini per azioni di conflitto da immaginare e costruire. Crediamo che le donne abbiano un ruolo da protagoniste in questo senso. […] Vogliamo indagare il lavoro come snodo e punto di connessione tra i piani dell’esperienza, il singolare e il collettivo, indagare ed entrare in relazione con le soggettività femminili\femministe messe al lavoro (Sconvegno 2003a).
Il 2001 segna l’inizio di un decennio di inchieste-autoinchieste che ci aiuteranno a mappare il lavoro e le sue contraddizioni, tra cambiamenti e continuità. La pratica con le compagne di Scovegno mi dà e salva vita[4]:
Inizialmente senza eccessivi investimenti, ma poi – via via – qualcosa è cambiato. Il confronto con le altre mi ha dato energia, coraggio e nuovi strumenti. Insieme a loro, nell’esperienza – a tratti esaltante – della riflessione e della scrittura collettiva sono finalmente riuscita ad esprimermi, tirar fuori dubbi, domande, paure; ma anche speranze, idee, desideri, risorse, progetti… L’effetto? Una sensazione di appartenenza, di autoriconoscimento e riconoscimento reciproco. La sensazione di poter finalmente dire la propria, pensare dalle fondamenta, sperimentare. […] di poter incidere sulla realtà data: di poter pensare, progettare e cominciare a praticare il cambiamento, come diciamo nel nostro documento. Attraversare il deserto del reale, interrogare l’esistente mettendo in discussione punti di vista consolidati, agire orientandomi con altri punti cardinali. La sensazione di poterlo fare: questo mi sta dando il lavoro politico dello Sconvegno, il rapporto con le mie compagne di viaggio. Non so se e quanto durerà, non so – né voglio – immaginarne i possibili sviluppi. È questo per me il piacere di fare politica, nel fare politica. Come se avessi regolato l’obiettivo della macchina fotografica su infinito, e potessi finalmente vedere qualcosa che da sola non ero in grado di vedere e quello che già vedevo in un altro modo (Sconvegno 2003a).
Scopro di essere il prototipo di quella che si chiamerà presto una pre-cognitaria o, come dice già qualcuno, una lavoratrice autonoma di seconda generazione[5].
Faccio tanti lavori e nessuno. Più o meno faccio parte del proletariato intellettuale: tutoraggi; collaborazioni con accademia e centri di ricerca e documentazione; partecipazione a progetti di formazione con vari enti e associazioni, per lo più finanziati dal FSE. Il mio strumento di lavoro sono io + il computer (Sconvegno 2003b).
Da qualche anno ho anche un “compagno”. Lui proletario, romano, nero (nato in Italia da una profuga politica italo-somala in fuga dalla guerra civile seguita al colpo di stato del maggiore Mohammed Siad Barre), militante vecchio stampo dell’area dei centri sociali; io alto borghese, bianca, milanese, femminista-postmoderna e libertaria… Ma ci capiamo al volo e siamo innamorati. Non ci interessa né sposarci né riprodurci. Carpe diem! è il nostro motto. E così, non dando mai per scontato nessun giorno passato insieme, sono già cinque anni che conviviamo, a casa mia. Anzi, dei miei. I quali, ovviamente non approvano, ma da bravi ex-sessantottini stanno a guardare, sperando che la nostra storia abbia vita breve.
Resteremo fidanzati in tutto dieci anni e, durante tutto questo tempo, segnerò sull’agenda ogni notte passata insieme. Amore e sicurezza non sono mai coincisi nella mia esperienza, né nel mio immaginario. Ho vissuto giorno dopo giorno il rapporto, con i suoi alti e i suoi bassi; sempre sapendo che si sarebbe trasformato e sarebbe, prima o poi, finito. Dico questo senza un briciolo di dispiacere, e lo penso avendo dei genitori che stanno insieme da oltre quarant’anni e dei nonni che sono stati sposati, felicemente, per tutta la vita. Non penso che necessariamente le relazioni d’amore debbano finire, credo però che vadano concepite nella dimensione della finitudine. Pensare che le relazioni, come tutte le creature viventi, nascono, si trasformano e possono morire, aiuta – nella mia esperienza – a non darle mai troppo per scontate, e a cogliere nella quotidianità gli elementi per cui si è grati di aver incontrato proprio quella persona. Inoltre, pensarle in questa prospettiva, permette di evitare di cadere nella trappola dell’immaginario “tragico-romantico” del vivranno per sempre felici e contenti e nella logica produttivista del “fallimento affettivo”, che spinge a ritenere di aver buttato via il proprio tempo stando con qualcun* e che, finita la relazione sessual-sentimentale, non si possa proseguire il rapporto in altre forme. Cosa che personalmente ho sempre fatto con i miei ex.
Tornando al 2001, scoperta la mia passione per il pensiero femminista, decido che non posso che proseguire gli studi: dapprima un corso di specializzazione in Genere e processi formativi, poi un master in Studi di genere e Pari opportunità e poi, chissà, un dottorato di ricerca… Siamo nell’epoca del long life learning, no? Per fare l’insegnante, mi dico, c’è sempre tempo. E intanto prosegue il mio lungo periodo di collaborazioni: coordinate e continuative, a progetto, a termine, a “come te pare”. Ricerche, archivi, lezioni nelle scuole, progetti europei… Dico sempre di sì. Mi piace “collaborare”. Anche come verbo. Ho molto da imparare e un sacco di energie a disposizione.
Quando a luglio arriva la manifestazione del G8 a Genova, inizialmente decido di non andare. Ci va già il mio fidanzato, tra le fila dei più incazzati, e non ho molta voglia di essere presente a degli scontri che già immagino inevitabili. Poi, la sera di venerdì 20, la notizia della morte di Carlo Giuliani. Quando tutti i mezzi di informazione raccomandano di lasciare Genova e assolutamente starne lontani, esattamente in quel momento, decido di partire. Una macchinata da Milano è facile da organizzare. E la mattina dopo siamo lì, a pochi passi da Piazza Alimonda. Durante gli scontri di piazza che hanno insanguinato il corteo del sabato, mi ritrovo con un bastone in mano senza nemmeno rendermene conto. Non lo userò, non ne sono capace. Ma l’odio e la sensazione di sopruso mi pulsano addosso.
Dal 2001 inizio a girare in Italia e in Europa, partecipando a diversi incontri femministi (e non), da cui traggo nuovi stimoli e spunti di riflessione: social forum, convegni, raduni e incontri. Mi sento parte di una comunità transnazionale! L’amicizia e la collaborazione con studiose e femministe come Nirmal Puwar o Jacqueline Andall[6] nascono facili e spontanee: ci riconosciamo al volo, e siamo tante in tutto il mondo.
Io che non sono mai appartenuta stabilmente o pienamente a nessun contesto, mi sento a casa. Mi sembra di aver trovato, finalmente, la mia strada: un percorso in cui affettività, politica, lavoro, studio e interessi personali si intrecciano e si sovrappongono, senza soluzione di continuità.
[1] Mi riferisco alle mobilitazioni tra il febbraio e il giugno 2000 della riunione dei membri dell’OCSE a Bologna sulle questioni dello sviluppo economico globale.
[2] Si veda l’archivio contenuto in http://www.ecn.org/sexyshock/.
[3] Lea Melandri è una delle anime più vitali e attive del movimento delle donne italiano, dagli anni settanta ad oggi. A lei e al suo pensiero acuto e fecondo si devono molte opere fondamentali nella ricerca sulla problematica dei sessi (1988; 2011). A lei e alla sua passione relazionale, si devono molti dei link intra e trans-generazionali del femminismo contemporaneo nostrano.
[4] Il nostro primo esperimento di autoinchiesta è raccontato nell’articolo “Emanciparsi dal lavoro” (Sconvegno 2003); ne segue un secondo dal titolo “LCM::: Lavoratori/Lavoratrici contrattualmente modificabili” (Sconvegno 2006) in cui la precarietà, nucleo della nostra riflessione, dal piano strettamente lavorativo si trasferisce definitivamente in quello delle nostre esistenze. Il terzo e ultimo ciclo di autoinchiesta inizierà nel 2008 per concludersi con la pubblicazione del saggio “Il lato B della precarietà” (Fantone 2011).
[5] “Precognitariato” è un termine diffuso nell’area del Movimento legata alla May Day Parade e a San Precario che indica la condizione diffusa di precarizzazione e proletarizzazione dei lavoratori/trici dei settori cognitivi. La definizione “lavoratori autonomi di seconda generazione” è stata coniata da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, ad indicare le forme contrattuali e le condizioni lavorative condivise dai nuovi professionisti/e nell’epoca post-fordista: “grafici, traduttori, web designer, consulenti… Hanno competenze diverse, ma moltissimo in comune. Lavorano per conto di imprese o enti pubblici, non per privati (non potrebbero evadere neanche se volessero!). Senza orari, senza week-end, senza sussidi di disoccupazione o malattia. Cercano di mese in mese (spesso di settimana in settimana) il lavoro con cui mantenere sé e le loro famiglie” (Bologna e Fumagalli 1997).
[6] Con loro e con altre attiviste della rete transnazionale NextGenderation, nascerà una collaborazione editoriale che porterà alcuni anni dopo alla pubblicazione di un numero speciale della rivista “Feminist Review”, dedicato all’Italia e al tema della precarietà (Sconvegno 2007).