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Quando il vibratore scompiglia l’ordine patriarcale

Donna è bello, ma Veg-Donna è meglio!

Non è raro iniziare ad abbozzare un’idea nella propria mente e poi scoprire che quella stessa idea è già stata spulciata, rigirata e argomentata una miriade di volte. Ebbene, è quello che è successo nel mio caso con il veg-femminismo.

Cominciamo quindi dall’inizio e dai meriti (suo malgrado) di Thomas Taylor.

Il simpatico Mr. nel farsi beffa della pioniera femminista Mary Wollstonecraft e all’urlo di ‘se si riconoscono diritti alle donne, tanto vale riconoscerne anche agli animali’ si dà la zappa sui piedi, accostando per la prima volta la parola diritti ad animali e avanzando l’idea di una relazione tra le dimensioni femminista e animalista.

Certo prima che si possa parlare propriamente di veg-femminismo ne dovrà passare di acqua sotto i ponti, ma per fortuna ora le cose stanno cambiando: la letteratura femminista-animalista è vasta e tante sono le analogie evidenziate tra le due forme di dominio su donne e animali. Ma non voglio stare qui a raccontarvi tutta la storia del movimento, quanto piuttosto ad analizzare uso e abuso del termine naturale.

Spesso i veg(etari)ani si sentono ripetere che mangiare carne è naturale. Io mi e vi chiedo: è naturale addentare la coscia di un pollo che ha raggiunto peso e dimensioni congeniali al mercato in poche settimane perché creato in un laboratorio di ingegneria genetica?

Un pollo che ha vissuto tutta la vita in uno spazio grande quanto un foglio A4, imbottito di antibiotici e integratori? Un pollo ucciso a chissà quanti chilometri di distanza e ben impacchettato in un vassoio di poliestere prima di arrivare cotto e condito nelle fauci di un naturalmente onnivoro? Beh non so voi, ma io vedo ben poca natura in tutto questo processo.

Naturale può essere inteso anche come essenziale alla sopravvivenza e anche a voler leggere la questione da quest’ottica, nella nostra ‘società dell’abbondanza’ in cui ormai è possibile trovare con assoluta semplicità una noce brasiliana o del bambù nepalese, direi che cibarsi di carne è piuttosto essenziale all’opulenza!

Tuttavia penso che la maggior parte degli onnivori parli in buona fede. In tutto questa storia della naturalezza del cibarsi di cadaveri certamente un ruolo di primo piano ce l’hanno le martellanti propagande sulla salubrità dei prodotti animali – volute dalle grandi lobby dell’industria della carne e del latte – che ci accompagnano da qualche decennio e che certamente hanno avuto qualche influenza su credenza e coscienza degli sfortunati destinatari.

Analizziamo adesso l’aggettivo naturale anche da una prospettiva femminile. Quante volte è stato detto che la subordinazione della donna all’uomo è naturale? Quante volte l’oppressione della donna è stata etichettata come tradizione, come ordine naturale delle cose?

Osservando il rapporto tra essere umano e animale e tra uomo e donna quello che balza subito all’occhio è la violenza che lo contraddistingue da sempre: violenza non per forza intesa come sopraffazione fisica, ma anche come sottomissione o discriminazione, e giustificata dalla falsa attribuzione alle vittime di una caratteristica che ne urlasse la naturale inferiorità. Ed è esattamente questo il terreno in cui le due dimensioni femminista e animalista trovano elementi per fondersi tra loro! Ma possiamo anche espandere ancora l’orizzonte e includere nel discorso qualsiasi tipo di argomento antidiscriminatorio: qualsiasi tipo di discriminazione – sia essa rivolta verso le donne, gli animali, gli omosessuali, le minoranze – nasce da un pregiudizio, un pregiudizio che ci porta a considerare naturali e inevitabili alcune pratiche. Come sostenuto da Stuart Hampshire, il problema vero e la sua chiave di volta sta proprio nel mettere in evidenza questo pregiudizio!

Mi viene da chiedermi a questo punto: la donna che non abbraccia il vegetarianismo e l’animalismo non opera forse la stessa discriminazione di cui è stata, e troppo spesso ancora è, essa stessa vittima?

women and meat

Esser vista come un pezzo di carne, come un essere irrazionale, senza altro obiettivo nell’immaginario comune se non quello di soddisfare le aspettative della società patriarcale? La donna che non abbraccia il vegetarianismo e l’animalismo non continua a portare avanti l’idea di proprietà privata di un essere vivente? Come la donna in molti casi e in molte culture viene considerata di proprietà dell’uomo, così allevando e cibandoci di animali non li ergiamo a nostra proprietà, semplici oggetti su cui siamo liberi di spadroneggiare?

Mi sento però di concludere con qualche nota di ottimismo.

La storia ci ha insegnato quanto sia difficile smuovere concezioni e consuetudini radicate, ma anche che i cambiamenti, spesso frutto di processi lenti e tortuosi, sono possibili. Non sto dicendo che il movimento femminista possa ritenersi pienamente soddisfatto e ritirarsi in pensione su chissà quale isolotto deserto a sorseggiare mojitos. Stesso discorso, se non ancora più valido, può esser fatto per il movimento animalista che è appena alle sue prime piccole conquiste.

Tuttavia il neonato veg-femminismo ha tutte le potenzialità per favorire una rivoluzione nel rapporto tra uomo e animale: l’argomento antidiscriminatorio e le similitudini della condizione della donna e dell’animale saranno utili (si spera) a facilitare una totale rivalutazione della relazione che lega tutti gli esseri viventi.

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